"Senza la scoperta del passato, non è possibile la scoperta del presente". Con queste parole Giorgio de Chirico svela allo spettatore la sua intenzione di frequentare il museo per utilizzare nelle sue opere ogni reperto ed andare così "al di là della fisica", spostandosi in questo modo al di fuori del mondo a lui attuale in una dimensione che sia appunto Metafisica.
Dopo le prime avanguardie il cui obiettivo era quello di rompere con tutto quanto ci fosse di già visto e di già fatto per essere originali ad ogni costo, De Chirico sceglie piuttosto di essere "originario" e di rivolgersi a quell'universo mitologico che affonda le sue radici nel glorioso passato della storia dei popoli del Mediterraneo. Ma attenzione perché nell'opera di De Chirico il dirigere il vettore verso il passato, non deve essere interpretato come un semplice lavoro di emulazione e recupero di un tempo lontano troppo perfetto per poter essere superato, ma al contrario, Giorgio de Chirico utilizza la rovina o il reperto archeologico allo stesso modo in cui Marcel Duchamp prende un banale oggetto quotidiano per creare i suoi ready-made e cioè: rivendicando un valore estetico ad ogni oggetto e circostanza preesistente a lui. Quello di De Chirico è senza dubbio un sensazionale ritorno, una rimpatriata nella storia dell'arte che mira non solo a rispolverare la memoria e la tradizione, le ricche immagini nascoste nei magazzini dei musei, pieni di capolavori dimenticati o abbandonati in favore di una modernità "a tutti i costi", ma anche al nobilitare i luoghi squallidi del presente attraverso il loro inserimento in quelli di un passato illustre.
In questo contesto si inserisce anche la mostra presentata al Museo Civico Archeologico di Chianciano Terme che presenta il lavoro scultoreo di De Chirico accanto ai vasi e ai canopi di una collezione permanente che vanta reperti etruschi, ma anche romani e preistorici. E così come la Val di Chiana è ricca e gelosa custode del suo passato, pur vivendo nel presente, a sorvegliare sulla sofisticata dialettica tra rievocazione e invenzione, ricordo e rinnovamento, De Chirico inserisce le sue figure senza volto, i suoi imprescutabili manichini, quelle famose "Muse inquietanti" che popolano il suo universo nell'enigmaticità e nel silenzio, vivendo come guardiani tra ciò che è stato e quello che sarà in un eterno presente, in un continuo ritorno, in una ripetizione differente. Muse che ritornano anche nelle sue sculture. La scultura è infatti, in De Chirico il naturale proseguimento della pittura. Come scrive Raffaele Carrieri: "i soggetti sono press'a poco gli stessi dei dipinti: cavalli, cavalieri, dioscuri, archeologi gemelli, Arianne. La mano che li ha modellati ha rifatto l'avventuroso viaggio ideale e concreto delle sue molte esperienze pittoriche. È una continuazione naturale. Identico è lo sviluppo, identico il modo di procedere, la stessa chiarezza e ricchezza di chiaroscuro […]. Il pollice è fluido e, come la pennellata, dove si posa arricchisce la superficie, determinando e agganciando nuove vibrazioni".
I primi lavori scultorei di de Chirico, per lo più in terracotta, risalgono alla fine degli anni Trenta e all'inizio degli anni Quaranta per poi proseguire con slancio negli anni Sessanta quando traduce in bronzo quegli stampi, prima di dedicarsi alla realizzazione di nuovi soggetti. Dalla stessa forza creatrice da cui sgorgano numerosi i suoi lavori pittorici nascono i lavori scultorei neometafisici o dalle riminescenze neobarocche, come nel caso della serie dedicata a i cavalli e cavalieri.
Immergendo in un mondo classico un'angoscia del tutto moderna, Giorgio de Chirico dà nuovo vigore espressivo a risonanze che sono, e saranno, eterne. Perfette le parole di T.W. Earp: "Le opere rivelano un maestro classico, anche se le idee sono espresse in modo moderno."
Franco Calarota